Riflessioni di Lidia Campagnano sul Laboratorio del 2002
Il laboratorio di intercultura realizzato a Prato nella Villa Fiorelli tra il 25 agosto e il 1° settembre scorso potrebbe essere preso a esempio di ciò che sta accadendo tra donne in Italia sul piano culturale e politico: qualcosa come una corrente di vitalità sotterranea benché alla luce del sole, una specie di talpa che scava ma anche corre tra gli alberi per guardar bene il mondo. Un centinaio di donne di diverse generazioni, docenti e discenti, di diverso impegno culturale (dall’operatrice sociale alla filosofa, dall’attrice all’astrofisica all’antropologa alla scrittrice all’insegnante, eccetera) di diversa provenienza geografica (dal Rwanda alla Bielorussia passando per l’Europa) sono state chiamate dalla Società delle letterate di Firenze e dal Giardino dei Ciliegi, con la benedizione di qualche assessorato della città e della Regione. Chiamate imperativamente da Liana Borghi, che ha aperto i lavori e non li ha abbandonati mai, a fare intercultura, a fare lavoro critico, a fare buona trasmissione alle più giovani. Ma anche a convivere, esperienza appassionante e da tempo per molte non scontata. Il titolo era Raccontare/raccontarsi. Ma nel raccontare è entrato con prepotenza il mondo globalizzato, le sue leggi senza legge, il suo imbarbarimento, le guerre, le migrazioni.
Riferire è quasi impossibile, usciranno gli atti: vale la pena di render conto però almeno di alcune novità che a Prato hanno preso corpo. Una settimana a Villa Fiorelli induce ad affermare che non esiste più una sola generazione femminista, ne esistono tre o quattro che, nei migliori luoghi di incontro tra donne, come è stato questo laboratorio, si mescolano senza bisogno di forzature. L’oggetto di passione che le fa incontrare è quantomeno l’abbozzo di una “cura del mondo” (espressione evocata dalla filosofa Elena Pulcini, tema che ha padri e madri, e tra queste Adrienne Rich) che non è più un’estensione del maternage, è percezione dell’urgenza, senso di tragedia da una guerra all’altra, da un disastro all’altro, assunzione di responsabilità in senso pienamente democratico. Si lavorava, tra l’altro, in mezzo alle foto della mostra Gaza portraits, prodotto del lavoro di donne palestinesi supportate dal Women Empowerment Project di Gaza e dal Ciss di Palermo (era presente tra noi Mariangela Barbieri) e l’occupazione dei territori palestinesi è stata presente nelle menti e nei discorsi lungo tutta la settimana.
Inoltre, ciò che induce questo tipo di femminismo all’incontro con donne immigrate e rifugiate non è un dover essere scontato: qui si parte dal conflitto tra chi ha diritti e chi no, o tra chi viaggia e chi emigra, per delineare un nuovo modo d’essere, con forti elementi comuni, in faccia all’ingiustizia planetaria. Come? A partire da una posizione non solo teorica, etica invece, e politica, che è quella dell’autoetnografia, dell’autoantropologia, come hanno detto Liana Borghi e Geneviève Makaping (Camerun). A ciascuna la sua propria consapevolezza, la sua propria capacità di cogliere disastri e potenzialità del suo pezzo di mondo, della sua parte di esperienza, singolare e plurale: è ovvio che, una volta assunta in pieno questa posizione, ne escono mutati gli impegni e gli stili della ricerca come quelli della cooperazione, e il linguaggio. Senza di che, niente dialogo, niente lavoro in comune.
Certo è che a tutte è toccato un ripasso di infiniti traumi: il passato delle guerre mondiali e della shoah (Lori Chiti, Aglaia Viviani), per esempio, o quello più recente di Chernobyl, che Svetlana Aleksevic ha, per così dire, riscritto. O, tra quelli in corso, lo scandalo riferito da Marie Terèse Mukamitsindo (Rwanda): “tutte le donne rifugiate che incontro sono state stuprate. Nel paese da cui sono fuggite e lungo la fuga. Non tutte hanno la forza di raccontarlo. Ma tocca raccontarlo per strappare una protezione a questo paese che non ha una legge sui rifugiati, non ha una casa pronta per accogliere ogni donna in fuga dalla sua tragedia”.
Ed è singolare e significativo che un simile percorso culturale e politico venga organizzato da donne che lavorano sulla letteratura, da anni: che da questo cuore della vecchia cultura umanistica, oggi in disuso o peggio, a volte in naftalina accademica, vengano donne che inventano un’immersione così totale nel corso del mondo. Tanto per non idealizzare, nemmeno a Villa Fiorelli tutto splendeva, nella cultura delle donne a volte si sente serpeggiare una sorta di bulimia: si mangia di tutto, a volte questo riuso di tutto è insopportabile, la vaghezza sembra essere un conforto narcisistico, viene voglia di rigore, di discrimine, di limpidezza. Finisce con l’essere sintomatico, forse, che tra donne si facciano (o in fondo si debbano fare, per creare qualcosa) i salti mortali, ed è così che nel programma di villa Fiorelli ci si è confrontate con le ricche “scritture migranti in lingua italiana” rigorosamente illustrate da Clotilde Barbarulli, o dalla riscoperta del lato migrante e traumatizzato di Margherite Duras grazie a Monica Farnetti, a una vera lezione, da parte dell’astrofisica Elena Bougleux, sul concetto di “singolarità nell’Universo”, che molto e beneficamente ci ha dato da pensare.
Tocca di chiedere scusa a tutte coloro che hanno “dato da pensare” e qui non sono citate per ovvi motivi di spazio. Di chiarire che il tutto è stato fatto con pochi soldi, sobriamente, in uno spazio di convivenza molto bello ma assolutamente “sportivo” (un ostello della gioventù). Che le lavoratrici e i lavoratori di Villa Fiorelli sono stati perfettamente accoglienti. Che molte hanno lavorato mesi per preparare tutto. Che questo era il secondo appuntamento di una serie che deve continuare: soprattutto in questi tempi non felici.