Prato. Laboratorio per mediatrici interculturali Maria Giovanna Onorati
Raccontar(si): quando la parola autobiografica è strategia della mediazione pacifica delle differenze
“Raccontare/raccontarsi”, ossia la parola autobiografica considerata sia nella sua dimensione letteraria, in quanto pratica della scrittur/azione, che in quella politica, in quanto strategia del riposizionamento di soggetti dislocati.
E’ questa l’idea di fondo che ha ispirato il laboratorio per mediatrici interculturali tenutosi dal 29 agosto al 5 settembre scorsi a Villa Fiorelli, un accogliente ostello appena fuori Prato,organizzato dalla Società Italiana delle Letterate in collaborazione con la Regione Toscana (Porto Franco), il Comune di Prato, il Giardino dei Ciliegi e l’Università di Firenze.
Un mese fa, dunque, a Villa Fiorelli ci si concentrava sulle possibili strategie della mediazione interculturale, in particolare si cercava proprio con la parola autobiografica, con l’implicito lavoro di scavo affidato all’espressività dei propri vissuti, delle proprie dis-locazioni (geografiche e identitarie) di dare corpo alle differenze, di trasformare quelle identità complesse di soggetti in transito (colonizzati dall’aut-aut ideo-onto-logico della lingua categorizzante che esclude), in spazi di con-fluenza, frontiere dove le contraddizioni si fanno composizione, luoghi di una pluralità composita, dove ogni differenza diventa spazio del tra, utopia, principio-speranza di un nuovo mondo possibile. Questa convinzione ha sotteso le intense attività di presentazione, confronto, discussione svoltesi durante questo laboratorio, che ha contato ben sessantadue partecipanti.
In un contesto in cui letteratura, politica e vita si intrecciavano continuamente in un raccontar/si che era sia un atto di creazione artistica che una progettazione finalizzata all’intervento sul campo, si passava senza posa dall’autobiografia come scrittura-azione all’intervento politico, alla concreta progettazione di strategie alternative del posizionamento di sé all’interno di un mondo pensato come diverso, fatto di pacifica con-vivenza, di integrazione non omologante di differenze.
Della scrittura epistolare ci hanno parlato anche le Cassandre e la studiosa tedesca Uta Treder (Università di Perugia), evidenziando come la lettera prende valore non dal suo statuto di verità, quanto piuttosto dal suo farsi ponte tra realtà e immaginazione, dal suo esprimere l’io come una pluralità relazionale in cui il tu è spazio di comprensione e ri-costruzione del sé.
Reazioni controverse tra le partecipanti ha suscitato l’intervento della cubana Leida Okenda, che, con trovate provocatorie ricche di ironia (lei, antropologa, giornalista, madre, ma irreversibilmente “suocera” in eterna competizione con sua nuora nel dar prova di virtù domestiche) ha inteso problematizzare il quesito “originario“perché la nostra società è maschilista, se l’educazione è appannaggio delle donne?”
Particolarmente incisivo è stato il contributo di Paola Zaccaria: (Università di Bari, Presidente della SIL).
Attraverso la lettura della carto-auto-bio-grafia Bordelands/La Frontiera della scrittrice Gloria Anzaldùa, Paola Zaccaria ci ha dispensato una sorta di manuale della possibilità di non rinnegare una parte nella scelta implicata dal posizionarsi sulla frontiera, provando altresì a fornirci un lessico per nominare l’indicibile, rappresentare il composito, il pluristratificato.
In questo elogio del mestizaje che il testo di Anzaldùa ci offre, la frontiera, oggi più che mai luogo di conflitti armati, è percepita dalla scrittrice chicana non come mero luogo geografico in cui la differenza assurge ad opposizione binaria se non addirittura a principio di classificazione gerarchica tra presunte culture superiori e inferiori, ma piuttosto come luogo di confluenza, luogo privilegiato della mediazione non-indifferente di differenze.
Ha aperto i lavori Clotilde Barbarulli: (CNR Firenze) madre simbolica della scuola di Prato e donna impegnata in un percorso pratico sulla differenza, rivolto principalmente alla scrittura e alla politica delle donne. Clotilde Barbarulli ci ha introdotte verso la liminarità del genere epistolare, tanto caro alle donne, in quanto variante di una modalità autobiografica intesa come pratica relazionale, in cui raccontare è raccontarsi, raccontare di sé in relazione ad altri.
In quest’ottica la frontiera può diventare addirittura condizione esistenziale di chi si scopre, nei propri disagi, ad abitare le incrinature dell’essere, come ha sottolineato Anna D’Elia (Accademia Belle Arti di Bari) attraverso la lettura di suoi racconti.
Di frontiere mobili, stavolta quelle virtuali del cyberspace, ci ha parlato anche Roberta Pisanzio, la quale, alla luce delle teorie femministe elaborate da Donna Haraway, ci ha proposto un percorso di lettura che parte dalle possibili revisioni del canone cyberpuink operate da scrittrici femministe. Al centro della sua analisi ha posto il cyborg: corpo ibrido, mutante, soggettività multipla frammentata, multigender, multiforme, utopia di un corpo in transito tra frontiere dell’identità, la cui struttura mutevole e proteiforme ci obbliga a ripensare perfino il confine tra possibile e impossibile.
Nell’ambito dell’autobiografia letteraria, quale campo privilegiato della scrittura-azione, si è mosso anche l’intervento di Giovanna Covi (Università di Trento).
Giovanna Covi ci ha proposto la lettura di alcuni passi del testo narrativo di Jamaica Kincaid The Autobiography of my Mother, in cui l’atto di raccontarsi si configura non semplicemente come la solipsistica questione del “chi sono io”, ma come un relazionale “chi sono io rispetto agli altri”. Dalla lettura di questo testo, e in genere di autobiografie con cui scrittrici contemporanee come Toni Morrison, Lorene Cary e la stessa Kincaid reinventano e ri-memorizzano il loro passato di schiavitù e colonialismo, viene fuori una soggettività femminile “prismatica”, un’identità che è divenire, processo, continuo passaggio.
E poi ancora Liana Borghi (Università di Firenze) letterata, studiosa, ideatrice e organizzatrice del laboratorio, che ha parlato del concetto di corpo inteso come costruzione discorsiva, cioè del sesso che non precede il genere, né lo determina e ci ha presentato gli incroci tra biologia e cultura, in un’ottica che fa sostanzialmente capo a Deleuze e Guattari, vale a dire il corpo inteso come processo, divenire e non progresso, in base ad un modello di sapere di tipo rizomatico e non ad albero (Deleuze e Guattari).
Liana Borghi ha sottolineato l’importanza del pensare la relazione con l’altro in termini di responsabilità e quindi come mediata dai discorsi e dai contesti e ha insistito sul concetto di razza inteso come contesto socio-storico e la diversità (che presiede e marca questa categoria) è fissata in base al codice binario inclusione/esclusione.
In quest’ottica anche la norma perde la sua rigidità e diventa flessibile, in continuo movimento. Ci ha parlato di diaspore, dal momento che occuparsi di intercultura vuol dire necessariamente tener conto del rapporto corpi/spazio che è strettamente intrecciato con il movimento diasporico. Ha evidenziato le origini del termine diaspora, l’idea di legame inteso non come legame di sangue, ma legame al luogo, al luogo e quindi la diaspora intesa come dis-locazione, de-territorializzazione dell’identità, che si accompagna a fenomeni di traduzione e migrazione all’interno dello stesso linguaggio.
Interessanti anche le riflessioni di Donatella Izzo, che ci ha mostrato come la detective fiction, genere prettamente maschile vista la sua forte connotazione misogina e maschilista, sia diventata, in seguito all’appropriazione da parte di soggetti femminili a partire dagli anni ’60, uno strumento di autoriconoscimento e di empowerment per gruppi non solo di donne, ma anche di omosessuali e minoranze etniche. In particolare attraverso i romanzi di Amanda Cross, di Sara Paretsky, ha evidenziato come questi testi, grazie alla loro struttura formulaica e alla manipolazione delle aspettative di genere, si pongano come cross over texts che fanno circolare idee nuove e concezioni sovversive della soggettività e del femminile, contribuendo a spostarne le frontiere.
In un’ottica come quella del laboratorio di Prato, in cui l’intercultura si dispiegava in tutte le sue molteplici prospettive di analisi e campi di azione, dalla letteratura, alla filosofia, alla politica, alla creazione artistica, filosofia e letteratura si sono trovate a confronto nei contributi paralleli di Elena Pulcini (Università di Firenze) e Monica Farnetti (Università di Firenze e Smith College) che, avallando la convinzione che raccontar(si) è un atto d’amore, un far dono di sé, della propria irriducibilità, all’altro, hanno provato l’una da una prospettiva filosofica, l’altra da una squisitamente letteraria, a fornirci una mappa della complessa realtà emotiva che si cela dietro termini quali “passione”, “sentimento”, “desiderio”, con un’attenzione particolare all’emotività di soggetti femminili.
In particolare Monica Farnetti, ha cercato di mettere in discussione la fragilità di alcune distinzioni tradizionali (anima/corpo; “amor sacro”/”amor profano”, ecc.), frutto di una concezione dualistica e meccanicistica dell’umano e all’origine dei conflitti e delle impossibili integrazioni che minano la realtà attuale. L’esigenza di tradurre il “pensare diversamente” e l’ “agire insieme” in una progettualità politica, in una concreta azione comune da svolgersi in uno spazio pubblico, è stata anche al centro del contributo di Raffaella Lamberti del noto e attivissimo Centro di Documentazione delle Donne di Bologna e di Bianca Pomeranzi (femminista lesbica del Movimento Femminista Romano di Via Pompeo Magni, nonché esperta in “politiche di genere e sviluppo” presso la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Esteri); in particolare quest’ultima ha enucleato alcune cause dell’attuale ridotta capacità negoziale delle donne all’interno dei movimenti internazionali e in particolare ha sottolineato la necessità che la modalità reticolare di cooperazione da parte dei soggetti femminili, ritrovi quella radice sessuata comune, al fine di restituire al movimento femminista la sua specifica connotazione di genere all’interno dei movimenti e delle istituzioni transnazionali per la democrazia.
Indimenticabili le testimonianze di donne che operano sul campo, ognuna con una storia e con una formazione differente. Alcune, immigrate loro stesse, ci hanno raccontato le loro storie di integrazione, come ad esempio Leonora Menisha, immigrata albanese che fa parte dell’associazione le Api (Associazione Per l’Intercultura) di Pistoia, o come Ruba Salih, antropologa sociale italo-palestinese, specialista in politiche di empowerment di donne palestinesi. Altrettanto interessanti le testimonianze di donne italiane, anch’esse operatrici interculturali, che hanno testimoniato il loro ruolo complesso di mediatrici all’interno di un processo difficile di reintegrazione di soggetti sessuati nei loro stessi contesti di origine.
E poi ancora storie di vita, di differenze, di integrazioni difficili, di immigrazioni interne, ci ha raccontato Adriana Dada che, con le sue storie di balie, storie di donne emigrate da un contesto familiare fatto di ristrettezze, ci ha fornito un suggestivo esempio di autobiografie marcate da sofferenza, perdita, perdono.
Un altro suggestivo esempio è venuto dalle ricerche di due giovani studiose Marta Marsili (Università La Sapienza di Roma) e Martina Cannetta (Università di Torino), che ci hanno iniziate all’inaccessibile mondo del Nu-shu, pittografia segreta intessuta su tela, textus (nel vero senso della parola) di significati inaccessibili, che le donne cinesi si tramandavano e con cui fuggivano da un destino di subalternità, dando al silenzio dell’analfabetismo e dell’isolamento a cui una spietata società patriarcale le condanna(va), l’eversiva forma del tacere un segreto da condividere.
Ma Villa Fiorelli è stata soprattutto un laboratorio pratico, una sorta di work on field della mediazione, un luogo che vedeva tutte noi continuamente impegnate a ri-negoziare spazi e tempi di volta in volta “piegati” dalle nostre differenze (come ci spiegava l’astrofisica-regista Elena Bougleux), da quelle singolarità uniche, irripetibili, impresse sui nostri corpi che le registe Cristina Dell0 Ovo e Federica Tuzzi hanno cercato di catturare con l’obiettivo di una telecamera che ci riprendeva continuamente.
Non a caso un esempio di magistrale mediazione “sul campo” ce l’ha offerto proprio Liana Borghi, che, con un indefesso lavoro di coordinamento e negoziazione tra soggetti (le/i partecipanti al laboratorio) marcati da percorsi esistenziali e culturali profondamente differenti, ha dato prova di grande capacità di accoglienza ed empatia.
Ancora più indimenticabili sono state le testimonianze di ognuna di noi, quei racconti non previsti dalla scaletta degli interventi, quelle storie difficili, fatte di perdite, di distacchi, separazioni, partenze senza ritorni, che molte di noi hanno raccontato raccolte in piccoli gruppi di discussione, portando alla luce il segreto delle loro differenze, spesso raccontate con voci tremanti di commozione, con volti rigati da lacrime incontenibili.
L’emozione ancora viva suscitata da quei racconti è per me una sorta di “sono qui” da cui vi scrivo; la consapevolezza di una neutralità impossibile acquisita proprio in quel contesto da noi “Fiorelle” e tutta rinvenibile nel ricordo dell’emozione suscitata dall’ascolto di quei racconti o dal commiato, nella nostalgia che anima l’attuale voglia di ritrovarci magari in occasione di un evento, nel bisogno di attestazione fàtica di un contatto che ispira i nostri forum e le interminabili mailing lists in cui ci si dice tutto e niente e in cui domina incontrastato il desiderio di esserci, è una sorta di nuova location su cui si sono posizionate le nostre identità e da cui hanno negoziato, per lo più inconsapevolmente, attraverso il concreto intrecciarsi di differenze, un linguaggio comune fatto di trattini, asterischi, back-slash, ecc.
Villa Fiorelli, con tutto quello che ha implicato in termini di condivisione di spazi e strutture, di cooperazione, di improvvisate sorellanze durate lo spazio di una settimana, di solidale disponibilità a condividere gioia e dolore, risa e lacrime. E’ una testimonianza di pace, un esempio che la via della mediazione è sempre possibile, che le differenze irriducibili non sempre sono il presupposto logico e inevitabile di conflitti insanabili o di integralismi, che fare interloquire donne di paesi e culture diverse, spesso antagoniste, è per molti di noi un’impellente necessità da perseguire con tenacia, che c’è un cultura della mediazione che si fonda sull’immediatezza della relazione e che si chiama “pace”.
Maria Giovanna Onorati
3 Ottobre 2001