Recensione apparsa in “LeggereDonna”, novembre-dicembre 2005 pag 28. Un demone buono per amico
di Ingrid Coman
Sono appena arrivata e c’è già qualcosa nell’aria; lo intuisco, lo sento sulla pelle, anche se non so ancora dargli un nome. Più tardi, sarà la dolce Kaha M. Aden a trovare le parole anche per me: c’è un demone buono nella nostra stanza, mi dice. Ci vuole poco per capire che il demone buono non è solo nella stanza, ma ovunque nella villa Fiorelli[1] dove si svolge il Laboratorio “Raccontar(si)”. Sta con noi, ascolta, annuisce o scuote la testa, è curioso, tenero e intelligente.
Cercherò di rendere l’idea della ricchezza di cose accadute e condivise con una pennellata di alcuni interventi e del segno che hanno lasciato in me.Il primo pomeriggio scorre tra i fumetti di Pat Carra, che commuovono, generano pensieri scomodi e disegnano sorrisi amari sulle nostre facce.
I giorni che seguono sono una vera maratona di cose che accadono. Le ore rotolano come sassi, ci travolgono e non ci bastano mai. Ci vorrebbe un tempo dilatato e panciuto per contenere tutto quello che succede. Il discorso di Anna Maria Crispino arriva come una torcia accesa sulle nostre paure, nel tentativo di dissipare il buio della catastrofe incombente che annebbia il nostro pensiero e il nostro agire. Paola Zaccaria è una raffinata clandestina del pensiero, per lei sinonimo di libertà di movimento tra discorsi differenti e volontà di trasgredire i confini disciplinari e le norme accademiche.
Clotilde Barbarulli ci regala una generosa mappa narrativa di un cammino virtuale, dal deserto assoluto della guerra, della distruzione, della perdita, verso il respiro dell’utopia, dimora surreale di un mondo possibile, benché ancora fatto solo di parole. Monica Farnetti rovescia il significato dell’esilio, che diventa vita gravida di creatività, di voglia di ricostruirsi altrove. Riesco così a dare un senso alla mia nostalgia e alla porta di non ritorno oltrepassata dentro di me, per sempre.
Con Barbara Poggio cerchiamo un sentiero percorribile di conciliazione tra fluidità del lavoro e trappole di genere, completato dagli interrogativi di Anna Picciolini. Enrica Capussotti ci propone un’analisi profonda di come le italiane percepiscono le donne che arrivano dall’Europa dell’Est. Precarie, viene da dire, come precario è sempre il cammino di chi lascia la propria terra per cercare un destino altrove. Ma è lo stesso anche per chi si sente minacciato dalla loro presenza, perché niente ci rende più precari e fragili delle proprie paure.
Luciana Brandi ci rivela come il nostro cervello offre asilo a un senso perenne di precarietà e come solo la narrazione riesce a tenere insieme e dare un senso alle cose. Elena Bougleux analizza le visioni intorno ai significati scientifici (mi mancano il suo spirito dolce e inquieto, il suo entusiasmo contagioso e la sua assoluta incapacità di restare ferma in un posto per più di cinque minuti). Daša Duhaček indaga sui concetti di luogo, spazio e tempo, per definire il senso di responsabilità politica. Ci incoraggia a riflettere su “io” e “noi” e la strada per passare dall’uno all’altro. Elena Pulcini scompone il meccanismo sottile della brama di perfezione del corpo, di questo permanente gioco al massacro e di come creare un’etica della resistenza all’uso disumano della tecnica. Giovanna Covi ci insegna come pensare alla società globale, multietnica, senza perdere la ricchezza delle nostre diversità e come usare le parole non per andare altrove, ma per cambiare quello che c’è. Con Mary Nicotra imparo a muovermi in spazi complessi e a cogliere le sfumature della nostra natura e la fragilità dei confini di genere.
Diye Ndiaye ci porta nel cuore del Senegal con storie di donne che fanno tutto, generano la vita e ne alimentano la fiamma, e storie di uomini custodi di forti coltelli da maneggiare e fragili dignità da proteggere. Marina Calloni frusta la nostra memoria con le immagini del Rwanda: là dove si può morire di mano amica e dove vita e morte finiscono per essere ugualmente dimenticate, gemelle dello stesso oblio.
Poi una sera la valigia della zia si apre ed ecco la Somalia: guerra, fuga, odio, morte. Ma la bella ed elegante signora Abdia Ali Firin sorride e sdrammatizza, non vuole forzare i confini della nostra impreparazione all’orrore, e con lei ci sentiamo come bambine dolcemente ingannate. Lascio per ultimo il nome di Liana Borghi, perché è unica: riempie gli spazi vuoti del cuore e della mente. E’ la cera calda – evocata da Clotilde con la scritttura di Fatou Diome – che scioglie e avvicina: il mio mondo ad altri mondi, la mia lingua ad altre lingue, la mia storia ad altre storie, me alle altre, e soprattutto avvicina dolcemente, senza strappi né dolore, me a me stessa, come uno specchio rotto che si ricompone.
[1] A Villa Fiorelli (28 agosto-3 settembre 2005) si è svolta la 5^ edizione del Laboratorio residenziale di mediazione interculturale Raccontar(si)” dal titolo “Precaria/mente: genere e intercultura”, organizzato dall Società italiana delle letterate e dal Giardino dei Ciliegi, d’intesa con l’Università di Firenze, e con il contributo di Portofranco e del Comune di Prato..