03 recensione di Francesca Bonsignori

La recensione  è stata pubblicata su “Leggendaria”

SPAZI FRAMMENTATI: RACCONTARE VILLA FIORELLI, L’ESPERIENZA DI  UN PASSAGGIO
di Francesca Bonsignori

30 agosto-6 settembre 2003, Prato, Galceti, Villa Fiorelli, “Laboratorio di mediazione interculturale”: è soltanto possedendo queste sintetiche informazioni che mi sono ritrovata ad inoltrare la domanda di partecipazione al laboratorio estivo Raccontar(si); pochi dati che non riescono ad esprimere quella che poi si è rivelata un’esperienza formativa ed emotiva molto intensa, difficilmente classificabile: Raccontar(si) è stato il luogo, lo spazio in cui il pensiero e il linguaggio hanno avuto la possibilità di manifestarsi, sedimentarsi, stratificarsi, intrecciarsi, decostruirsi e ricomporsi. Tante voci diverse, per età, esperienza, provenienza, formazione qui, a Villa Fiorelli -un ostello riposante e sereno al centro di un parco di alti pini- hanno avuto modo di intraprendere insieme un percorso di relazione, ascolto, comprensione e confronto che alla fine ha lasciato sicuramente in ciascuna uno scrigno di emozioni dai sapori intensi.

Un incontro, durato una settimana, che ha aperto lo spazio della riflessione al tema centrale della complessità; una complessità affrontata alla luce di direttrici molteplici quali il genere, la cultura, l’etnia, la provenienza, la razza, il vissuto, il parlato, che si esprimono  nella varietà,  nell’originalità e nella sofferenza di identità multiformi in continuo divenire. Identità di donne e di migranti che hanno richiamato l’attenzione di tutte noi sul margine, sul fenomeno nel suo manifestarsi piuttosto che nella sua definizione istantanea, sullo sforzo e il piacere estetico della traduzione di vite giocate sulla creolizzazione dell’esistenza. Parole, storie, narrazioni che hanno fatto della forza dell’immaginazione l’arte di vivere, imponendo la ri/scrittura di una realtà che si attualizza dopo il riconoscimento identitario della differenza.

Un laboratorio che ha cercato di farci “spostare lo sguardo” per andare oltre il territorio della ragione chiara ed evidente, guidandoci proprio nelle “zone oscure” in cui le discipline più diverse si intersecano e si sovrappongono e i linguaggi si contaminano; uno spazio imprevedibile ed unico, che la giovane e brillante astrofisica Elena Bougleux ama raccontare attraverso la raffinatezza romantica dei frattali, configurazioni astratte che talvolta si perdono nell’infinito e tal altra orbitano attorno ad un attrattore. Magiche ed inquietanti rappresentazioni della concretezza dell’esistenza che non pretende di essere definita, compresa in ogni margine, né bella ad ogni costo, né brutta, ma pretende di essere.

Elena, Liana Borghi, Clotilde Barbarulli, Giovanna Covi, Monica Farnetti, Lori Chiti, Lidia Campagnano, Iva Grgic, Elena Pulcini e molte altre  pensatrici, donne autorevoli, tenere amiche ci hanno raccontato attraverso la scienza, la letteratura, la politica, la storia, come le mappe dai tracciati semplici che tutto descrivono e contengono debbano essere disegnate nuovamente, riscrivendo sconosciute cartografie di terre difficili e inesplorate, “…rendendo ogni terraferma un arcipelago…”, per dirla con le parole dense di poesia della letterata Paola Zaccaria.

Il Laboratorio ha messo noi Fiorelle – è così che Liana Borghi e le altre ci hanno affettuosamente “battezzate” ed è così che tutt’oggi ci chiamiamo scherzosamente tra di noi – di fronte ad una sfida: andare oltre noi stesse, frantumando l’Io pietrificato che ci accompagna verso il “luogo comune” e ci allontana dall’intima complessità di un’identità fluida, pronta a ricostruirsi costantemente attraverso l’interrelazione con l’Altro. “Cogliere la struttura schiumosa della nostra psiche…” è l’invito che Monica Farnetti ci lancia durante una coinvolgente lezione su Nathalie Sarraute: una scrittrice che ha reso la letteratura il luogo privilegiato della relazione, lo spazio estetico in cui l’esistenza individuale ha la possibilità di aprirsi alla politica. Una dimensione, quest’ultima, imprescindibile per pensare un progetto comune di ri/costruzione della realtà, uno spazio  che ci è stato chiesto di vivere in ogni dove e in ogni quando, utilizzando quegli strumenti che sono patrimonio comune, come la memoria del vissuto, l’arte dell’immaginazione e la sincerità dell’espressione; con passione, Lidia Campagnano, ci suggerisce di ritornare ad una politica semplice, incisiva, immediata, una politica sincera a partire da sé.

Un percorso, quello di Villa Fiorelli, che ci ha trasportate dalla dimensione intellettuale dei frattali, a quella più concreta della politica, fino ad arrivare alla narrazione immediata e diretta della propria esperienza di vita: voci di donne, voci di migranti, identità apolidi che ci hanno raccontato la bellezza di esistenze permeate dalla tensione erratica, tessute tra luoghi, culture, lingue differenti, ma anche, come tiene a ricordarci Clotilde Barbarulli, esistenze sofferte, vissute nell’angoscia, talvolta rinnegate o dimenticate nell’oblio di parole sepolte e taciute:“…non ho patria quando la gente non chiede di me…”. Clotilde insiste molto sulla dimensione umana, una realtà che non è solo poesia, che non è fatta solo parole, ma di corpi segnati, sofferenti per fame o per freddo, torturati, violati;  corpi caldi che esprimono un passaggio di emozioni, la relazione dell’essere con gli altri. Un po’ come la nostra stessa esperienza di Fiorelle, che da perfette sconosciute si sono trovate a vivere insieme, una quotidianità tracciata dalle discussioni, dal sorriso, dalle parole, dal confronto. Sguardi incrociati, la scoperta della bellezza delle altre, la condivisione empatica di ideali, di esperienze, la sincerità dell’essersi messe in gioco ciascuna di fronte alle altre.

Durante uno dei laboratori pomeridiani, sedute in cerchio, ciascuna leggendo alle altre testi che parlavano di sè, abbiamo evocato alcune immagini che credo siano significative di quest’esperienza, che ci ha cambiate, frantumando sicuramente buona parte delle nostre certezze, ma rendendoci forti della consapevolezza di poterci scoprire e sorprendere più aperte e ricche: un cerchio di donne che si passa un gomitolo di lana dipanandone il filo, un balsamo per la solitudine, una piuma dentro un vortice di emozioni, un cibo condiviso in uno stesso piatto, un prato con fiori dai mille colori, una fila di donne che all’alba vanno nei campi con il profumo di gelsomino in pieno volto, un arazzo tessuto da tante mani di donne che lavorano insieme. Ci è stata chiesta un’autobiografia finale che credo abbia rappresentato per ognuna il momento della visione e del riconoscimento di sé che è anche Altro; il momento del confronto più difficile con se stesse, alla ricerca delle tracce sconnesse di un’identità su cui abbiamo giocato, riflettuto, che abbiamo riscoperto molto più complessa e caotica, ma colma di frammenti di possibilità di esperienze, relazioni e incontri.