PRECARIA/MENTE: GENERE E INTERCULTURA
Raccontar(si).
Laboratorio di mediazione interculturale
Prato, villa Fiorelli,
28 agosto- 3 settembre 2005
La parola-guida per il laboratorio 2005 è stata scelta per una varietà di motivi. Innanzitutto, Precaria/mente allude sia alla perdita di fiducia nell’avvenire, sia al tipo di lavoro che il neoliberismo richiede nella sua fabbrica globale. A sua volta, la precarietà del lavoro, annunciata come forma di libertà ma rivelatasi senza opzione, produce uno stato di intermittenza e di frammentazione che aumenta il senso della precarietà stessa della vita. Ma come si comunica l’ovvia precarietà della vita? È questo lo scopo delle immagini che senza tregua giungono, a noi più lontane, attraverso i media, con la violenza sadica delle fiction, e attraverso i reportage, le stragi, i bombardamenti, le foto dei torturatori (e di soldatesse sorridenti)? In questa nostra età dell’incertezza, l’uguaglianza della nostra vulnerabilità di fronte alla vita e alla morte dovrebbe essere il fondamento dei nostri valori e dei nostri diritti (scrive Jeffrey Weeks). Ma allora perché lo scarto tra i ben orchestrati funerali variopinti organizzati per gli eroi dello Stato, i disordinati funerali vociferanti dei martiri dell’Intifada portati a braccia dalla folla, e l’anonima scomparsa dell’Altro che continua ad essere rappresentato come un essere inferiore, nudo, o al guinzaglio, con il volto coperto e senza nome, perché la sua faccia non conta come faccia, né la sua vita come vita o la sua morte come morte?
Ciascuna/o di noi ha la sua precarietà. Precaria è sempre la parola, precario l’ascolto, mutevoli sono le condizioni del vivere, latente è sempre anche l’Alterità. Gayatri Spivak suggerisce che dominati e subordinati ripensino sè stessi insieme. Per cominciare, noi femministe dovremmo sbarazzarci del nostro privilegio di bianche occidentali perché costituisce una perdita; dovremmo disimparare gli stereotipi e i discorsi trionfali per stabilire una relazione etica con l’Altra/o. Per quanto “la relazione di responsabilità preceda qualsiasi scambio inter-soggetivo tra il Sé e l’Altro”, se facciamo “della responsabilità un diritto piuttosto che un obbligo”, e se (ci) educhiamo “all’imperativo planetario”, potremo creare una diversa sensibilità sociale, una pratica sociale basata sull’alterità. “Voi” e “loro” – dice – dovete immaginarvi in un “dialogo intessuto di responsabilità” perché tutti/e noi siamo “esseri umani planetari” (Aut Aut 2002).
Ciò nonostante, al momento tuttavia prevalgono precarietà del lavoro, precarietà dell’esistenza/precarietà delle culture: senso di precarietà dal punto di vista sociale a quello culturale. Le culture sono referenti mobili, in divenire, attraversati da conflitti e continuamente suscettibili di trasformazioni. Nella surmodernità (Marc Augé) – una accelerazione della storia in cui il tempo prevale sullo spazio – ci troviamo calate in mezzo a flussi di persone, idee e merci, per cui i territori non possono essere più gli unici contenitori delle culture. È tuttavia la cultura che mi permette d’incontrare l’Altro (Roland Barthes) attraverso libri ed incontri, in cui dialogare e confliggere: la cultura è uno spazio mobile, poroso, per questo oggi la classificazione culturale legata ad una spazialità geografica non ha più senso: la cultura è infatti contemporaneamente globale e locale, nella contaminazione (Edouard Glissant). Ed appare sempre più precaria.
Il pensiero egemone vuole invece – nell’imporre la precarietà del lavoro – la durata della sua cultura, una cultura dell’eterno presente collocata nelle “loro” certezze (tradizione da tramandare, basata su canoni), una cultura che ha l’arroganza della Doxa. E si basa su un sistema di informazione che ha l’intento di occultare i dubbi sulla guerra infinita alimentando invece paure e insicurezze, allo scopo di legittimare i processi che portano a togliere gli spazi di confronto e che cercano di militarizzare in varie forme le nostre vite. Nel ridurre – se non demonizzare – qualsiasi dissenso e critica, si cerca di svuotare il senso della memoria (oblio di memorie di tragedie, memorie di ideali, di rivendicazioni, di movimenti… nella mondializzazione del tempo), nel suo raccordo fra passato-presente-futuro. L’avvenire come speranza e come responsabilità vanno di nuovo articolati (Ernest Bloch e Hans Jonas), superando “l’eterno presente” del neoliberismo.
In tale quadro va considerata anche la precarietà rispetto all’ambiente in crisi, a causa della crescita produttiva illimitata, in cui si collocano le guerre fatte per sostenere l’economia: nella “Lettera aperta agli economisti” (a firma di Carla Ravaioli ed altri, 2001) si attaccano i tradizionali paradigmi della scienza economica, mettendo in luce l’esistenza di una “consapevolezza ecologista nel sociale; cioè di qualcosa che può insidiare le basi dell’economia capitalistica di mercato” e proponendo l’espansione della produzione di “beni sociali” in alternativa alla produzione delle sole merci. “Parlare di persone anziché di cose” significa incrinare la validità delle leggi del mercato e del profitto, in base alle quali si ha lo sfruttamento sistematico ed esasperato sia del lavoro sia della natura. Altrove, si cercano linee di fuga da dentro lo spazio capitalistico, punti di rottura del tempo lineare di chi comanda, si disegnano forme aperte, spirali e frattali, si progettano lotte collettive, e strategie per decostruire le narrative imperiali (Precog).
Vite precarie di Judith Butler conferma il senso del nostro titolo. La precarietà impera nel clima di oltranzismo patriottico degli Usa mentre si attenta alle libertà civili in nome della sicurezza. Con il progressivo smantellamento dello Stato di diritto, emerge sempre di più che ad alcuni non è riconosciuta neanche la dignità di esseri umani: se nell’attuale mondo siamo tutti particolarmente esposti alla precarietà, per alcuni la vita diventa un vuoto a perdere. Di fronte a questo scenario, anche Butler propone un’etica non violenta, basata sulla percezione della precarietà della vita che inizia dalla vita precaria dell’Altro. Anche Ida Dominijanni ha parlato, recentemente, della esigenza, oggi di una politica dell’amore basata sulla relazione. Come abbiamo tante volte detto nei nostri Laboratori, citando altri testi, il problema è quello di prendere atto delle differenze (fra uomini e donne, fra donne, fra native e migranti) e dare loro spazio, ascoltarle senza appropriarcene.
Butler – e questo ci interessa particolarmente – mette anche in luce la dimensione narrativa, che dal potere e dai media in Usa viene usata, dopo l’11 settembre, per escludere ogni interrogativo, ogni possibilità di dissenso: come, per esempio, vengano isolate storie singole con uno sguardo psicologico che esclude una spiegazione politico-culturale più ampia degli eventi. A noi invece interessano piuttosto narrazioni (testi solubili e/o insolubili, scritture nella/della dissolvenza) tendenti a interrogare, a inquietare i codici, la doxa, con uno sguardo sul mondo e sul potere. Quelle che si potrebbero definire le parole della precarietà si ritrovano in vari testi di transizione, nelle guerre, nelle migrazioni, nelle inquietudini di autrici (di ieri e di oggi) che in vari luoghi si interrogano e ci interrogano: è dalla precarietà che possono nascere anche la scintilla creativa, la conflittualità, le biforcazioni concettuali (come quando Walter Benjamin dice metaforicamente che sapersi orientare in una città non è gran cosa: la vera arte consiste nel sapersi anche smarrire).
Se dunque il concetto dell’Altro, su cui si regge il nostro senso di identità storica, culturale e individuale, è andato in frantumi, anche noi siamo coinvolti in una dispersione che ci porta oltre quella casa tradizionale composta di linguaggio e identità nazionali, di località fisse; emerge l’importanza della letteratura, di contro-narrazioni per riscrivere il senso del luogo, dell’identità, della modernità (Ian Chambers), di una casa di carta in divenire (Clotilde Barbarulli). Le narrazioni permettono l’affermazione della vita contro la sua stessa precarietà, scrive Azar Nafisi.
In un discorso sul riconoscimento delle minoranze, Homi Bhabha cita la poesia “Movement” di Adrienne Rich per sottolineare l’idea di politica come movimento che si trasforma a suo parere in un “(dis)accordo negoziato” tra l’io nel confronto con il suo doppio scisso – il tu, la politicizzata “persona che sarà” – per aprirsi a un mondo più ampio di differenze oltre ogni polarizzazione binaria. L’essere umano, per Bhabha, va posto agli incroci in uno spazio dialogico, in modo che ogni momento di riconoscimento sia una difficile doppia esposizione al tempo e alla storia. In tale contesto di spazi per la diversità afferma che il grande dono della letteratura consiste nel dotare il linguaggio di uguaglianza e di diritti che si riassumono nel diritto alla narrazione: “Raccontare delle storie che creino il tessuto della storia a cambiare la direzione del suo corso”, storie che ci permettano di rappresentare le vite che conosciamo, di interrogarci sulle convenzioni ereditate, di mettere in luce ideali e utopie, ecc. Quindi racconti non di “vittimità” – per i quali c’è spazio, nelle retoriche del multiculturalismo, in specifici “comparti etnici” (Nirmal Puwar) – ma racconti che diano spazio alla precarietà femminile in tutte le latitudini, senza interpretare/assorbire l’Altra.
Gli imperativi categorici di Spivak – contro-narrare, decostruire, disimparare – ci aiutano a sconfinare dai limiti dei paradigmi della rappresentazione contemporanea, a trovare figurazioni “che rendano visibile l’impossibile che è la condizione della visibilità” (Critica). La flessibilità che corregge la precarietà non è solo una teoria letteraria, è una pratica adatta a certe situazioni. Resistere, trattenersi, reprimere si accompagnano a strategie intelligenti e inventive di esplorazione critica e di scrittura creativa. Liberandoci dalle troppe etichette che cercano di classificare/incasellare (ad esempio, la creazione dello straniero come categoria e non come persona in carne ed ossa), e rivendicando il “diritto all’opacità” (Glissant, “non ci capiamo completamente, ma possiamo convivere. L’opacità non è un muro, lascia sempre filtrare qualcosa”), possiamo leggere (epistemologicamente) storie di vita, strategie, visioni del mondo molto diverse tra di loro, dove persone concrete escono dalla massa indifferenziata e diventano storie, fermando sulla pagina bianca la precarietà dell’esistenza.
Ma, auto-riflessivamente, ci piace chiudere il discorso parlando per un attimo di noi che insegniamo a Raccontar/si citando ancora una volta Homi Bhabha quando osserva,
“In quanto autori/autrici e insegnanti viviamo precariamente, come precipitati delle nostre stesse soluzioni, interrogando i nostri poteri di risoluzione. Qualsiasi sia l’autorità morale a cui ci opponiamo, o a cui aspiriamo, in quanto umanisti sappiamo che la sovranità del nostro ingegno e della nostra volontà è sempre precariamente bilanciata nell’atto stesso della sopravvivenza. … e solo coltivando attentamente un senso condiviso di fiducia etica diretta a compiere scelte libere e giuste possiamo rimediare a quella condizione dell’essere. Così nuove albe spuntano, e altre storie inquietano il giorno.”
Così, anche, dalla precarietà che viene imposta dal neoliberismo in una società iniqua, si può provare a passare a una precarietà conquistata (precaria-mente) nel senso appunto delle molteplici appartenenze, di culture e lingue in movimento, senza perdere la dimensione di materialità nella complessità dei processi che portano alla costituzione di soggettività sempre più cangianti. E per questo concludiamo citando Spivak che dice, “Io voglio restaurare l’utopico. Voglio che la gente ricominci a sognare perché nei sogni iniziano le responsabilità”.