Letterate Magazine 76
L’Abc della precarietà di Roberta Rebori
Da venerdì 29 a domenica 1° dicembre si tiene a Firenze al Giardino dei ciliegi il seminario Abc della precarietà. Una delle partecipanti ha risposto ad alcune domande della redazione
Che cosa è l’abc della precarietà?
L’abc della precarietà è strettamente legato all’idea di “abecedario precario”, una forma di auto-racconto in divenire e una potenziale pratica di resistenza alla precarietà, sulla quale sto riflettendo da qualche tempo.
L’idea originaria è nata da un input di Chiara Martucci e di Pamela Marelli: scrivere un diario partendo, appunto, da un abc in divenire. Un abc, un diario delle nostre quotidianità, che potesse diventare anche strumento per raccontarci. un diario per cercare di capire meglio la precarietà e di capirci meglio nella precarietà. Un diario che servisse anche da punto di partenza per nominare e immaginare le pratiche di resistenza alla precarietà del nostro presente e del futuro. Un diario, infine, che potesse diventare uno strumento per comunicare con gli altr*.
Nel tempo, almeno per me, l’abc della precarietà è diventato una ricerca di parole chiave per spunti di riflessione e letture sulla precarietà.
A Firenze, in occasione di “Abc della precarietà: laboratorio”, come collettivo le Acrobate inseme a Chiara Martucci, proporremo un laboratorio “Abecedari precari. Parole, (pratiche) e resistenze ai tempi della crisi”. In questa occasione speriamo, attraverso stralci di narrazione dell’abc delle nostre vite precarie di condividere con altr* la nostra ricerca di strumenti per orientarsi e districarsi nella precarietà.
Perchè ti definisci precaria?
Innanzi tutto io sono una donna di 44 anni. Sono laureata in scienze politiche ma non ho mai usato il mio titolo di studio a fini lavorativi. Ho fatto diversi lavori, segretaria, commessa, fino ad approdare, poco meno di dieci anni fa, all’idea di aprire una libreria che chiuderò a fine dicembre. Mi definisco precaria non solo perché dal primo gennaio sarò disoccupata ma perché la mia vita lavorativa, per i più vari motivi, è stata segnata da una precarietà di fondo data da contratti a tempo determinato o atipici o dal fatto di dover tenere in piedi una piccola libreria indipendente.
Pensi che l’essere donna abbia aspetti particolari nella precarietà’
Essere donna rende le cose un po’ più difficili, temo. Capita, in quanto donna, di dover lavorare di più e in condizioni peggiori. Credo sia capitato a tutte noi. Ma rispetto alla precarietà ho idee un po’ contraddittorie. Spesso mi capita di pensare al lavoro a termine, atipico o alle posizioni di tutt* coloro che vengono chiamati quinto stato come a qualcosa che rende tutto un po’ uniforme, senza sesso e senza genere. Altre volte mi scopro indignata nel pensare che le donne sono ancora relegate a posizioni lavorative più scomode e meno retribuite. Mi rendo conto che, per motivi che non ho ancora indagato, rispetto al sesso e al genere mi sono interrogata poco in tema di precarietà. Ma probabilmente questo mio modo di pormi è dato da un punto di vista molto personale. Il punto di vista di una donna che non ha figli e che non ne avrà, ad esempio.
Quali sono le esigenze minime del vivere – non – precario?
Quali siano le esigenze minime del vivere non precario è un tema che mi interroga da un po’ e sul quale potrei parlare per ore se ne avessi tempo e modo. Io credo che le esigenze minime cambino molto in relazione ai tempi e ai luoghi. Credo anche che ci sia una buona dose di soggettività nel definire gli obiettivi minimi del vivere non precario. Personalmente, essendo nata donna in Italia, nelle Marche, alla fine degli anni ’60 e da una famiglia mononucleare borghese, penso che i requisiti minimi siano un posto dove abitare, un reddito che mi dia non solo da mangiare e da vestire ma anche la possibilità di avere una vita affettiva e delle soddisfazioni di tipo culturale. Una vita non precaria per me significa anche una certa garanzia di cure mediche accessibili nel caso in cui si stia male e l’aspettativa di avere un reddito anche quando non sarò più in grado di lavorare. Ma mi rendo conto che le mie esigenze minime di vivere non precario sono strettamente legate alla mia cultura e alla mia formazione. E mi rendo anche conto che i miei standard di esigenze minime di vivere non precario si sono molto abbassate nel corso degli anni e con il venir meno di molte delle aspettative legate al lavoro e delle garanzie legate al welfare. Tutto questo mi ha portata spesso a pensare a cosa rende un soggetto precario, oggettivamente e soggettivamente.
Ci sono speranze?
A mio parere, perché ci siano speranze, bisognerebbe ripensare alla precarietà ex novo. Bisognerebbe, ad esempio, uscire dal binarismo precarietà come limite/precarietà come occasione. A mio parere questo è un binarismo che crea solo attriti tra chi ha avuto l’occasione o il limite di avere un lavoro a tempo indeterminato e chi invece non ne ha più. Il punto è, a mio parere, che il mondo del lavoro è molto cambiato, che le garanzie date dal welfare si stanno erodendo o sono state erose. Bisognerebbe ripartire di qui. Ripensare a pratiche politiche e di resistenza che dicano che noi siamo qui, ora, e che da qui dobbiamo pensarci e ripensarci. Chiaro poi che il discorso è molto più complesso e che investe problematiche politiche e economiche che vanno oltre la mia conoscenza. Comunque io spero sempre che ci sia speranza.
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